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Panorama artistico lodigiano. GIANNI VIGORELLI: “Senza la scultura la mia storia non esisterebbe”

Gianni Vigorelli in uno scatto di Franco Razzini

Sono passati più di venti anni (esattamente ventidue) dalla morte dello scultore lodigiano Gianni Vigorelli (1016-1998). Per una settantina d’anni la scultura è stata impiegata da questo lodigiano allievo di Francesco Messina e amico di Ettore Archinti, per comprendere ed esprimere il mondo dell’uomo. Nel fuoco dell’esercizio creativo, lo ha fatto con una coerenza, in un rapporto stretto e necessario, che sarebbe impossibile non tenere viva la sua opera nel contesto dell’arte territoriale. Vigorelli non è stato conosciuto e valorizzato in vita come avrebbe meritato. Un po’ per colpa sua, che non ha mai sofferto la fregola di esibirsi, tranne che in pochissime “uscite” di gruppo; un po’ per una sua naturale propensione all’isolamento e per il fastidio che gli procurava l’onda effimera delle mode, da fargli perfino rinunciare a una partecipazione alla Biennale di Venezia; infine perché, lo confessava lui stesso, i “meccanismi” che si erano affermati tradivano le sue convinzioni di artista. Era moderno, e lo dimostrerà introducendo strutture romboidali (a losanga), dall’intreccio primitiveggiante nelle figurazioni, ecc., ma nel mantenere anche il rapporto con la forma, cercava spiegazioni dell’evoluzione artistica, nella rottura dei valori ottocenteschi senza rituffarsi nelle vertigini romantiche. Il suo rifiuto del romanticismo è stato netto, in transigente, non quello della realtà. Riconosceva nel reale il contenuto dell’opera, quando ovviamente non ne tradiva i caratteri ma ne metteva in evidenza i valori.
In tutti questi anni, delle sue opere si è parlato poco, non come la sua arte avrebbe meritato. Anche se mostre, biografie, riscontri critici non gli sono mancati. Di Vigorelli hanno puntato a far apprezzare, attraverso la scultura, l’idea dell’arte, come arte delle idee, non secondaria alla crescita civile della società.
Negli anni ’90 , in occasione di una retrospettiva al San Cristoforo uscì da Pomerio un libro che ha mantenuto un’invidiabile freschezza nelle analisi delle sue opere. Tino Gipponi, l’autore, vi ha recuperato considerazioni già precedentemente espresse, ma d’attualità.
Vigorelli è stato un uomo di poche parole. Una delle poche parole che amava pronunciare era “umanesimo” insieme a “pietas”. Ricusava perciò l’ipotesi, allora di moda, della “morte dell’arte” poiché, spiegava, sarebbe stato sinonimo di “morte dell’uomo”.
Sul finire degli anni ’60, l’accanita polemica che accompagnò il Monumento alla Resistenza, costituì una sorta di divulgazione in città di forme che raccoglievano le provocazioni (nei caratteri e nelle tendenze) dell’arte moderna. La sua fu una autentica “sfida” in una realtà cittadina cieca, dove non esisteva una tradizione di ricerca artistica allineata ai tempi. E’ tra gli anni settanta e ottanta che la scultura si fa conoscere meglio ( e in modo forse eccessivamente generico), da darsi una diversa immagine attraverso Staccioli, Mauri, Corsini, Canuti, Suzy Green Viterbo e i giovani Costa, Tatavitto e Chiarenza, che impressero una svolta postmoderna, contrassegnata anche dalla presenza di sculture “accettate” di Franchi, Ceglie, Vanelli, e, più tardi, di Fabbri e Bernazzani).
In tale contesto Vigorelli rimase però un esempio non seguito, con la sua continua lezione di libertà nella ricerca, di indipendenza dagli schemi, riconoscibile nelle sue madonne o maternità, dal “chiasmo” delle mani e della vicinanza, dai richiami a elementi di stile arcaici, dalle strutture a volte romboidali (a losanga), dall’intreccio primitiveggiante nelle figurazioni, ecc. Un linguaggio distintivo, volumetrico, lontano dai convenzionalismi sia classicheggianti sia moderni, pronto ad accogliere (con equilibrio) intensificazioni espressioniste. Ritrovando però occasione per  passaggi e recuperi a un’arte svincolata dall’invenzione affidata alla linea e alla losanga, ma anche al “rapimento” della forma neoaccademica.
La mostra che Gipponi curò nella occasione del centenario della sua nascita risultò preziosa: per i dati oggettivi, di pensiero e poesia oltre che per la “lettura” che seppe dare delle fasi più significative e personali della ricerca dell’artista, la tensione stilistica e l’approfondimento di soluzioni formali liberate in un limpido ductus di stile culturale.

Aldo Caserini

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“Cinquant’anni di mostre d’Arte”. Lodi a circuito chiuso

Hayez alla BipielleCinquant’anni di mostre d’Arte , inaugurata sabato a Bipielle Arte (presenti i due curatori, Marina Arensi, che ha motivato le scelte metodologiche seguite nell’allestimento e Gianmaria Bellocchio, mons. Bassano Uggé che ha portato i saluti del Vescovo, il Sindaco di Lodi, Simone Uggetti e Gianpaolo Colizzi, Presidente del Consiglio Comunale, promotore della mostra), non sarà, forse, propriamente una mostra-evento, ma è senz’altro una raccolta gustosa che per le molte presenze, per gli stili e le interpretazioni costituisce una vetrina importante, di complessa organizzazione, che può dare un apporto al processo di conoscenza e di studio della storia locale. Prende in prestito una parte del percorso tracciato in “Lodi 1900-2000. Un secolo di mostre d’arte” compilato da Marina Allegri e in una serie di articoli apparsi sul “Cittadino” del 2013, che individuavano l’attività una serie di gallerie e spazi locali  partendo dalla Diocesana di Arte Sacra del 1901 e finite con una collettiva post bellica alla galleria Roncoroni di “assaggi” novecentisti.
Al di la di ogni valutazione di repertorio e di identificazione, la scrupolosa (e impegnativa) messa in campo dell’iniziativa è coerente con la proposta espositiva. Non ha, né può avere, carattere filologico, scientifico o storico, anche se ovviamente non possono sfuggire in alcune delle opere gli elementi ideali per un giudizio artistico. Per sua concezione la mostra resta una cronologica di quei momenti espositivi locali che nella prima metà del Novecento hanno conferito tipicità alle attività della galleria Roncoroni, del Museo Civico, del Nuovo Teatro Gaffurio, della Società Operaia di Mutuo Soccorso, del Seminario Vescovile, del Casinò di Lettura e della Camera di Commercio.
Prendere in esame l’attività di 7 spazi, attraverso130 opere di una sessantina pittori e scultori, è quasi fatale dover bypassare deduzioni e distinzioni di fonte storico-artistica; non altrettanto, dovrebbe essere per le considerazioni “comparative” tra la “vetrina” localmente e la rappresentazione di quella che altrove, soprattutto nella vicina Milano, hanno garantito gallerie private e  spazi pubblici  conferendo visibilità a cubisti, futuristi, fauvismi, Nuova Secessione, Costruttivismo, Suprematismo, Dadaismo, Surrealismo, De Stijl, Valori Plastici, Spazialismo,  Ritorno all’ordine, Classicismo pittorico, Informale…
La mostra curata da Marina Arensi e da Gian Maria Bellocchio con la collaborazione di Vittorio Vailati, resa possibile grazie ai finanziamenti del Consiglio Comunale della Città di Lodi, della Fondazione Bipielle e della Fondazione Comunitaria della Provincia di Lodi, è una sorta di differenziazione dell’offerta, che considera l’importanza del momento e dello spazio espositivo locale. L’evidenza maggiore che vi appartiene è riservata a Gaetano Previati, Osvaldo Bignami, Stefano Bersani, Ernesto Bazzarro, Francesco Hayez, Cesare Tallone, Ambrogio Alciati, Francesco Messina, Vittore Grubicy de Dragon, autori tutti con una loro storia personale, alcuni nella Scapigliatura, altri nel Divisionismo, altri ancora nella tecnica e tradizione, sistemati in un ambito temporale modificato, con qualche incognita di leggibilità se non si è prestata lettura alle indicazioni delle sezioni che scandiscono l’allestimento.
Il criterio di mettere insieme mostre personali e quelle  “temporanee”, “circondariali”, “permanenti”, “commemorative”, “settimanali”, “tematiche” e collettive, ha permesso di raccogliere lavori importanti di Carlo Zaninelli, Enrico Spelta, Lucia Antonioli, Silvio Migliorini, Giuseppe Vajani, Giuseppe Steffenini, Giorgio Belloni, Giuseppe Vailetti nonché di Beppe Novello,Attilio Maiocchi, Gaetano Bonelli, Angelo Monico, Igildo Malaspina, Cristoforo De Amicis e degli scultori Ettore Archinti, Paolo Sozzi, Bassano Vaccarini, Gianni Vigorelli, Fausto Locatelli, Angelo Roncoroni, Carlo Casanova, Vito Vaccaio, Pietro Kufferle e di altri. Un excursus, ampio e variegato, sul quale prevale nella parte centrale della rassegna la coniugazione locale, della quale non sfuggono gli elementi che uniscono e distinguono. Senza entrare nei dettagli, l’insieme è in grado di fornire spunto  quali emozioni le mostre lodigiane possono avere trasferito (o suggerito) ai cittadini. Una proposta che è infine moderata dalla presenza nel percorso conclusivo di importanti artisti del Novecento Italiano (Borra, Carrà, D’Accardi, De Chirico, Sironi, Tosi), esposti nel 1946 alla Roncoroni.
L’insieme di questa sorta di quadreria rivela come nella prima parte del secolo passato prevalesse a Lodi la proposta di pittura di figura in cui aveva risalto la capacità vitale di alcuni artisti di riflettere la cultura del tempo, allora rappresentata da valori tattili, dal movimento, dalla composizione spaziale e dal sentimento . Ma Ma non mancano in essa anche tra gli altri: chi guardava all’espressione connessa ad emozioni della vita; chi all’espressione che imitava i significati del reale; chi era fedele alla forma accademica come merito intrinseco dell’espressione; e i testimoni dei capricci e delle abilità fioriti sul corpo dell’arte locale, temperamenti eccitati dal colore e dai luoghi che agiscono sui sentimenti.
Una mostra insomma per molti aspetti interessante, che costituisce una occasione per attrarre e invogliare i visitatori a confrontarsi con esperienze altrimenti precluse.

Cinquant’anni di mostre: dal: 21 novembre 2015 al 10 gennaio 2016. Sala espositiva Bipielle Arte, via Polenghi Lombardo, Lodi. Orari: da martedì a venerdì, dalle 16 alle 19, sabato, domenica e festivi, dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 19

(Testo della nota pubblicata sul quotidiano “il Cittadino” di Lodi il 24 novembre 2014)

 

 

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