La venticinquesima edizione di Stanze della Grafica che l’Associazione Monsignor Quartieri ha in organizzazione per novembre allo Spazio Arte Bipielle, prevede un omaggio oltre che a Timoncini a Pietro Diana, uno dei più colti e raffinati incisori italiani.
Chi abbia familiarità e interesse alla “lingua” grafica, della punta e dell’acido, dell’acquaforte e dell’acquatinta, non rimarrà deluso dal riguardare i fogli stampati dall’artista milanese, peraltro già fatti conoscere, al Museo Civico di Lodi, a Cascina Roma a San Donato, agli “Stampatori” di Soncino, alla X edizione della Oldrado da Ponte, a Castelleone, Soresina, Casalpusterlengo, Melzo e al Centro dell’Incisione Alzaia Naviglio Grande eccetera.Diana è stato dei pochi per i quali la calcografia non ha avuto segreti: febbrile e appassionato nella ricerca delle multiformità qualitative e comunicative, è stato un printre-graveur di insuperabile destrezza e drammatica lucidità nella tecnica finalizzata alla ideazione e realizzazione della stampa originale d’arte; di instancabile rigore e inquietante poesia come dimostrano la serie dei suoi cicli: “Animali, Amore”, “I mostri”, “Da Garcia Lorca, “Apocalisse”, “Castelli, “Per l’Anno Santo” eccetera..
Dieci anni fa, il 28 dicembre, Pietro Diana avrebbe compiuto 86 primavere, intensamente vissute a dare immagine a idee, coltivare l’essenzialità nel disegno e nel tratteggio e perfezionarsi nella sovrapposizione di vellutate intensità di scuri in una figurazione ricca di castelli diroccati e sublimi, di animali spaventosi, poi di falene e di civette accanto a corpi femminili.
Si era diplomato con De Amicis e Disertori a Brera nel 1954 e aveva iniziato quasi da subito a macinare esperienza tra lastre, inchiostri, mordenti, torchi e attrezzi, ad approfondire le qualità fisiche dei procedimenti, fino a forgiare una lingua espressiva ricca di fantasia e poesia, di impatto tra forma e immagine.
Nel suo percorso artistico ha conciliato l’asportazione del metallo e la docenza (esercitata dal 1976 al 1997). Un tragitto in cui ha accordato le distinte identità anche attraverso premi e riconoscimenti, tenendo conferenze, svolgendo collaborazioni su riviste specialistiche, partecipando a personali, mostre collettive e biennali di cui sarebbe davvero una pretesa darvi qui conto, così come dare cenno agli interventi analitici dei tanti critici che ne hanno affrontato la profondità dei temi elaborati e non tutti tranquillizzanti, la sua poetica figurale e la sintesi di segno(Carlo Munari, Rossana Boscaglia, Mario Girardi, Marco Valsecchi).
Ciò nonostante, della sua attività creativa si è saputo sempre poco, avendo il “maestro” (per quarant’anni, titolare della prima cattedra di tecniche dell’incisione a Brera) deciso un atteggiamento defilato dal grande pubblico e dalla stampa, riservando le sue preferenze al lavoro tosto, alla ricerca, al perfezionamento, alla salvaguardia del mestiere e della disciplina, all’insegnamento.
Partito con un occhio naturalistico morandiano Diana abbandonò presto i modelli giovanili di riferimento. Scoperse come superamento della pittura “ il mondo” della calcografia, individuando nei temi della notte quel mondo fantastico, tormentato e sorprendente che ha tradotto in un migliaio di incisioni: una sorta di teatro delle inquietudini e delle metamorfosi, costruito su personali coordinate, incurante delle mode e delle novità delle avanguardie ( l’Informale, la Nuova Figurazione, la Pop e altro). Diana ha preferito guardare a un maestro spagnolo che citava spesso nelle conversazioni: Goya. Al quale assegnava il concetto che i mostri non nascono da un’inventiva senza riferimento, ma in un mondo interiore insondabile razionalmente.
Aldo Caserini