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Pietro Diana prossimamente a Carte D’Arte 2019

La venticinquesima edizione di Stanze della Grafica che l’Associazione Monsignor Quartieri ha in organizzazione per novembre allo Spazio Arte Bipielle, prevede un omaggio oltre che a Timoncini a Pietro Diana, uno dei più colti e raffinati incisori italiani.
Chi abbia familiarità e interesse alla “lingua” grafica, della punta e dell’acido, dell’acquaforte e dell’acquatinta, non rimarrà deluso dal riguardare i fogli stampati dall’artista milanese, peraltro già fatti conoscere, al Museo Civico di Lodi, a Cascina Roma a San Donato, agli “Stampatori” di Soncino, alla X edizione della Oldrado da Ponte, a Castelleone, Soresina, Casalpusterlengo, Melzo e al Centro dell’Incisione Alzaia Naviglio Grande eccetera.Diana è stato dei pochi per i quali la calcografia non ha avuto segreti: febbrile e appassionato nella ricerca delle multiformità qualitative e comunicative, è stato un printre-graveur di insuperabile destrezza e drammatica lucidità nella tecnica finalizzata alla ideazione e realizzazione della stampa originale d’arte; di instancabile rigore e inquietante poesia come dimostrano la serie dei suoi cicli: “Animali, Amore”, “I mostri”, “Da Garcia Lorca, “Apocalisse”, “Castelli, “Per l’Anno Santo” eccetera..
Dieci anni fa, il 28 dicembre, Pietro Diana avrebbe compiuto 86 primavere, intensamente vissute a dare immagine a idee, coltivare l’essenzialità nel disegno e nel tratteggio e perfezionarsi nella sovrapposizione di vellutate intensità di scuri in una figurazione ricca di castelli diroccati e sublimi, di animali spaventosi, poi di falene e di civette accanto a corpi femminili.
Si era diplomato con De Amicis e Disertori a Brera nel 1954 e aveva iniziato quasi da subito a macinare esperienza tra lastre, inchiostri, mordenti, torchi e attrezzi, ad approfondire le qualità fisiche dei procedimenti, fino a forgiare una lingua espressiva ricca di fantasia e poesia, di impatto tra forma e immagine.
Nel suo percorso artistico ha conciliato l’asportazione del metallo e la docenza (esercitata dal 1976 al 1997). Un tragitto in cui ha accordato le distinte identità anche attraverso premi e riconoscimenti, tenendo conferenze, svolgendo collaborazioni su riviste specialistiche, partecipando a personali, mostre collettive e biennali di cui sarebbe davvero una pretesa darvi qui conto, così come dare cenno agli interventi analitici dei tanti critici che ne hanno affrontato la profondità dei temi elaborati e non tutti tranquillizzanti, la sua poetica figurale e la sintesi di segno(Carlo Munari, Rossana Boscaglia, Mario Girardi, Marco Valsecchi).
Ciò nonostante, della sua attività creativa si è saputo sempre poco, avendo il “maestro” (per quarant’anni, titolare della prima cattedra di tecniche dell’incisione a Brera) deciso un atteggiamento defilato dal grande pubblico e dalla stampa, riservando le sue preferenze al lavoro tosto, alla ricerca, al perfezionamento, alla salvaguardia del mestiere e della disciplina, all’insegnamento.
Partito con un occhio naturalistico morandiano Diana abbandonò presto i modelli giovanili di riferimento. Scoperse come superamento della pittura “ il mondo” della calcografia, individuando nei temi della notte quel mondo fantastico, tormentato e sorprendente che ha tradotto in un migliaio di incisioni: una sorta di teatro delle inquietudini e delle metamorfosi, costruito su personali coordinate, incurante delle mode e delle novità delle avanguardie ( l’Informale, la Nuova Figurazione, la Pop e altro). Diana ha preferito guardare a un maestro spagnolo che citava spesso nelle conversazioni: Goya. Al quale assegnava il concetto che i mostri non nascono da un’inventiva senza riferimento, ma in un mondo interiore insondabile razionalmente.

Aldo Caserini

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Teodoro Cotugno e Agostino Zaliani: 100 incisioni allo Studio Bolzani a Milano

zaliani-e-cotugnoLa scelta dello Studio Bolzani, storica galleria milanese (ora in Galleria Strasburgo 3, in piazza San Babila) di presentare insieme 100 incisioni di Teodoro Cotugno e di Agostino Zaliani , due acquafortisti di tecnica diamantina, non può che definirsi una scelta coraggiosa, sia dal punto propositivo che da quello artistico. I tempi, si sa, sono quello che sono. Si scrivono pagine e pagine artisticamente “antagoniste”, dove per virtù paradossale, “vale tutto” e a prevalere, da tempo, è il compiacimento (o autocompiacimento o narcisismo) d’infrangere le “regole” della koiné, del far bene, a regola d’arte. Un anticonformismo che nelle arti visive è dilagato a dismisura sotto l’etichetta della “ricerca”, ma che in effetti è solo una pratica di maniera, destinata a stomaci forti, in cui l’ostentazione ossessiva dell’ originalità raccoglie consensi spesso imbarazzanti.
Cotugno e Zaliani (spentosi a Milano nel dicembre 2014) sono acquafortisti di formazione diversa, dotati di grande consapevolezza dei mezzi tecnici, da esprimere con chiarezza sensazioni prevalentemente ricevute dal paesaggio, dalla natura e dai luoghi. In tanti anni di attività, nella loro produzione calcografica si coglie non solo la realtà insieme al vero, ma anche il sentimento, che altrimenti il risultato rischierebbe di essere scarsamente eloquente. Nelle immagini la loro poesia non è sbrigativa, ideologica o letteraria: più di slancio quella dell’ex-geometra dell’aem di Milano, assiduo frequentatore di modelli espressivi canonizzati, ma insieme artista e poeta autentico, ha immerso le proprie sapienze e osservazioni in figurazioni folgoranti, in forme ricche che sottendono allusioni e spessori, forze ed energie che trascendono. Zaliani attirò l’attenzione, tra i primi, del critico lodigiano Tino Gipponi e si fece conoscere dai lodigiani attraverso “Carte d’Arte”, rivelando in ogni immagine il coraggio del proprio linguaggio, delle proprie padronanze tecniche fatte di esattezze e sentimento e l’azzardo della poesia naturalista. Varia, limpida e solare la produzione di Cotugno, in cui non c’è la ripetizione di un rito segnico, ma attenzione a ciò che si vede e si coglie, ai segni dell’esperienza e dell’emozione interiore, ma anche a ciò che non si vede, ai moti appena percettibili, alle spinte inconsce in cui l’immagine di volta in volta acquisisce lontananze e profondità, connessioni e distinzioni. A spiare le sue predilezioni figurative si scoprono sempre risultati ulteriori: la varietà sapiente del segno, il miglioramento di quel che già esse possedevano, la capacità di renderle varie e sincere. Ogni suo lavoro è pensato, elaborato, composto, riempito di energia. Dietro al velo di poesia si intuisce com’egli ormai segua una filosofia propria, in grado di trasferire nelle composizioni tranquillità, serenità, una certa disciplina e una fattura intessuta di mistero, che le sottraggono alla chiacchiera e alla letteratura. Le sue stampe convincono non tanto per la scelta dei soggetti o per i motivi, quanto per la fattura, la capacità di suscitare sensazioni nella sensibilità del fruitore.
La mostra delle opere dei due maestri lombardi allo studio Bolzani è un’occasione per dimenticare, sia pure per un attivo solo, i bulimilici schemi offerti da tanta arte d’intrattenimento attualista e ritrovare un’arte che apre alla poesia e alla riflessione, risultato di una ricerca dura sul linguaggio attraverso la concentrazione e il dialogo e una elaborazione affermatasi nell’arco di quattro e più decenni.

Teodoro Cotugno, Agostino Zaliani – Studio d’arte Bolzani – Cento incisioni in mostra Galleria Strasburgo, 3 Milano Inaugurazione giovedì 9 febbraio fino al 25 febbraio – orari: 9,30-12,30, 14,30-19, domenica e lunedì chiuso – info: studiobolzani@libero.it – tel 02.760.14221

 

 

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Elena Amoriello, al di là della pittura

Amoriello fotoLa personalità di Elena Amoriello è certo una delle più singolari e anche delle più difficili da situare nel panorama locale. Chi volesse circoscriverla in una classificazione rigida sarebbe quasi certamente vittima di qualche abbaglio. Nella produzione di questa artista, vista di recente al Caffé Letterario a Lodi, pervenuta con libertà al rigore attraverso il “pathos” piuttosto che attraverso il raziocinio (anche se razionalità, logica e giudizio gli fanno scudo) non c’è nulla di “precostituito”. Per contro, anche chi la volesse includere tra gli epigoni di esperienze “post” informali o concettuali o del nuovo ordine sbaglierebbe di grosso. Purtroppo, a causa degli impegni familiari e di quelli richiesti dalla docenza, negli ultimi anni l’artista si è vista costretta a ridurre le occasioni di aggiornare i risultati del proprio cammino. Un percorso già segnato da studi e ricerche (l’Amoriello si è laureata con una tesi sull’arte spaziale di Lucio Fontana) che hanno portato a un alto punto la sua visione di un’arte materica metaforica ed emblematica attraverso esperienze che vanno dall’uso dei materiali alle procedure, dalle sperimentazioni alla “redenzione” della tecnica sino a costituire per prassi esecutiva e risultati formali una “scenografia cosmica” esemplare per fattura e fantasiosità.
A parte questa preventiva considerazione, l’arte dell’Amoriello resta per contenuto semantico, per tensione strutturale, morfologica e compositiva una delle più interessanti espressioni, con un suo peculiare medium espressivo, apparse sull’orizzonte artistico locale.
A distanza di alcuni lustri dalle prime esperienze espositive l’artista può essere fiera di avere raggiunto una autonomia di linguaggio e una personalità che nessuno può contestargli. Non cederemo noi alla tentazione di interpretare a tutti i costi i suoi diversi moduli espressivi, assegnando loro particolari significati oltre la semplice funzione formale. L’arte di questa lodigiana è “sua”. Ha timbro squillante, “metallico”, originale nelle soluzioni. Attraverso forma e materia celebra l’energia e la suggestione di un universo fantastico che nasce spontaneamente dalla accorta manipolazione di elementi materici e formali. Un ottimo esempio di espressione, non il gran “collé effimero che si vede in giro, frutto di un abbracciare l’ indistinzione tra arti, negando l’esclusività di un materiale o di una corposità. La qualità del risultato è nell’eleganza estetica. Non nell’arte non-arte, ma in una espressività che non priva di codici di identificazione, offre sempre spunti che richiamano o saldano con un “qualcosa” del cosmo, della natura, di una qualche potenza generativa.Amoriello
L’ esperienza espressiva dell’artista è decisamente segnata dal linguaggio calcografico con cui fa convivere elementi diversi, sfruttando al meglio anche la fase di stampa. Nei risultati misti intervengono elementi integrativi: a volte indefiniti, ambigui, a volte precisi e distintivi. In queste varietà, tutto è importante e contribuisce all’ esito finale, sempre e comunque filtrato dall’occhio estetico dell’autrice. Molti lavori dell’Amoriello si possono “toccare” e “sentire”, permettono un avvicinarsi “fisico”. Ciò procura suggestioni inopinatamente particolari e soggettive. Le realizzazioni confermano la personale capacità dell’autrice di essere nel presente e di confrontarsi con il passato attraverso scelte iconiche e aniconiche: ipotesi, scenari, forme che incarnano concetti, emozioni, onde di senso. O anche “formule del pathos”, ovverosia del sentimento, dell’emotività, del lirismo, del ricordo, di un “qualcosa” che viaggia e muta nel tempo, al pari degli occhi che lo guardano.

 

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Museo della Stampa Schiavi: due nuovi quaderni con due “chicche” di Teodoro Cotugno

 MONICO Quaderno Museo StampaRaramente, ma succede, che nel dare notizia delle numerose iniziative che arricchiscono la cultura locale si finisca per dimenticare realizzazioni di qualità, di quelle che tengono insieme con accuratezza gusto e contenuto. Finiscono così per essere dimenticate pubblicazioni di vero artigianato librario, in cui si rispecchiano tesi critiche, elementi biografici e testi di poeti e scrittori che hanno ognuno una propria riconoscibile voce e una propria riconoscibile intonazione di stile e qualità. Sono spesso anche realizzazioni dai contenuti che aiutano a conferire autorità a un discorso, a riprendere e a offrire una sintesi che semplifica ed esprime con chiarezza idee e giudizi, che corrispondono allo scrupolo di verificare precedenti posizioni e di riportare l’attenzione con intelligente, generoso e amabile sforzo su autorevoli personaggi del sistema locale che il tempo tende a far dimenticare o a marginalizzare. E’ il caso di un pittore dalla COTUGNO Omaggio a MOnicoScan_Pic0025personalità piegata alla solitudine esistenziale, Angelo Monico, a cui è riservato il X numero delle collana del Museo della Stampa e stampa d’arte a Lodi. Curato da Tino Gipponi, offre una ricostruzione di carattere personale dell’artista ma anche critica e ambientale del maestro, insegnante per una  quarantina d’anni di discipline e artista maldisposto a esporre e a vendere le sue opere. O, in altri casi, come Ada Negri, un altro quaderno – il IX della collana promossa dal Museo della Stampa –  dedicato alla poetessa lodigiana ma che s’impone innanzitutto per le peculiarità tipografiche: la qualità della stampa, i caratteri mobili utilizzati, la composizione a mano, le spaziosità e altri requisiti che appagano l’occhio di un piacere che investe contenuto e contenitore. Oltre che per le liriche selezionate (Ponte di Lodi, Piazza di San Francesco, Campane, La Campanella, La Voce…) la  realizzazione si fa NEGRI A Museo Stampaapprezzare per la composizione manuale, l’uso di caratteri Bodoni (neretto, tondo e corsivo) e Life e la stampa su carta Antalis bianca vergata con filigrana. Insomma per l’ars typographica, per quel quid che fa dell’opera stampata qualcosa di più di un semplice “prodotto” ben fatto, frutto di un artigianato che regge sulla profonda conoscenza dei mezzi tecnici, delle carte, dei caratteri oltre che su una cultura umanistica. La raffinatezza di queste pubblicazioni del Museo è garantita da una “architettura” in cui c’è tutto uno studio di equilibri fra le dimensioni del foglio, il “corpo” del segno, , la “grazia” del segno stesso, cioè il rapporto fra il “magro” e “grasso” della linea che deve comporlo fino a farne un “optimum”. In definitiva tutto ciò che costituisce un lavoro laborioso, qualitativamente alla ricerca della perfezione tipografica, che permette agli emisferi che compongono l’opera di riflettere e rivelare complementarietà e COTUGNO Omaggio a A Negrirelazioni speculari e renderla attraente e desiderabile in quanto genere di classe in grado di impreziosire la propria  biblioteca o raccolta.
IX e X Quaderno sono arricchiti da due acqueforti di Teodoro Cotugno: 40 copie raffiguranti il Ponte di Lodi e 50 esemplari in omaggio a Monico che rappresentano un Interno tratto da un’opera dell’artista. Due stampe originali d’arte che sono vere e proprie chicche, autentici contributi di poesia e calcografia da conferire pregio e raffinatezza ai due quaderni, a loro volta esempi di costruzione tipografica e di cultura. Nell’apparente semplicità le due piccole calcografie di Cotugno rivelano una sapiente sintesi di segno e di immediatezza raffigurativa. Può sembrare una modalità espressiva facile e accattivante, ma anche questi piccoli lavori rispondono all’impulso della volontà creativa del maestro calcografo lodigiano, sono frutto di una costante energia concettuale prima che manuale, ch’egli fedele alla propria consuetudine riflessiva e operativa converte in segni, gesti, incavi, in valori grafici e quindi in immagine.

(Nota pubblicata su “il Cittadino” quotiidiano del Lodigiano e del Sudmilano il 29 dicembre 2015)

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L’arte calcografica di Luigi Poletti. Tecnica e poesia

Il pittore e calcografo lodigiano Luigi Poletti

Il pittore e calcografo lodigiano Luigi Poletti

LUIGI POLETTi, acquaforte per il Premio De Martino, 1990

LUIGI POLETTi, acquaforte per il Premio De Martino, 1990

 In tempi di imperante finzione, che vedono la stampa d’arte – tutta la stampa originale d’arte e non soltanto questa -, occasione e preda di non poche degenerazioni, Luigi Poletti è tra i peintres-graveurs lodigiani dei pochi (con Teodoro Cotugno, Vittorio Vailati, Flavia Belò), che per indole, tenacia e fedeltà sono rimasti osservanti dei fondamentali dell’incisione, al rapporto materiale-tecnica finalizzato alla ideazione e realizzazione della stampa originale d’arte: matrice in rame o zinco, comunque concepita e manualmente elaborata, operazioni di morsura per graduarne la profondità degli incavi, carta di ottima pasta in grado di assorbire senza deteriorarsi, inchiostrazione e pulitura non per consuetudine operativa, ma per conseguire qualità di resa cromatica, tiratura in numero ridotto e che assicuri “freschezza” anche agli ultimi esemplari, impressione su fogli di carta a mano con perimetrali sfrangiati e segno della filigrana discreto e, perché stampe originali d’arte, numerazione con signature o signé autografica su ogni esemplare,

Aldo Caserini, Teodoro Cotugno e Luigi Poletti durante una mostra al Circolo Vanoni del 1985

Aldo Caserini, Teodoro Cotugno e Luigi Poletti durante una mostra al Circolo Vanoni del 1985

L’incisione non è, come molti pensano, solo un linguaggio espressivo che richiede una costante di energia, concettuale, muscolare e nervosa, una modulazione di gesti sapienti che convertono tagli e incavi e puntinati in valori grafici e quindi in immagine. E’ anche una ritualistica, diciamo una sorta di culto oxfordiano, con cui la creazione si veste del segreto e dell’introversione che sempre si nascondo nelle “piccole cose”, nelle piccole attenzioni e che contribuiscono a dare spessore all’opera e alla personalità di un autore.
Negli anni Sessanta Luigi Poletti è stato tra i fondatori del gruppo lodigiano Il Segno, un sodalizio che ha aiutato ildiffondere sul territorio delle tecniche di esclusiva pertinenza dell’incisione – acquaforte, acquatinta, maniera nera o mezzatinta, bulino, punta secca, vernice molle, maniera a penna o a zucchero – predisponendo un buon numero di artisti locali (o che tali aspiravano a divenire o che tentavano d’essere), al tirocinio artigiano della graveure prima di penetrare nel linguaggio espressivo.
Tra le invenzioni espressive l’incisione ha la caratteristica di sembrare semplice, come la scrittura. Sostenerlo è però una sciocchezza, una imprecisione. Si perdonano facilmente coloro che a prima vista apprezzano la ricercatezza in una stampa d’arte e poi la considerano un “prodotto” marginale, un succedaneo della pittura. Sono imperdonabili quegli artisti che fermi alla perizia del mestiere la praticano senz’anima, alla stregua di una dimostrazione attitudinale nella speranza di riceverne facili ritorni, L’incisione non è fatta solo di “mestiere”. La tecnica ha le sue specificità, soprattutto deve sapersi incontrare con la poesia. E’ un linguaggio espressivo, autonomo. “Complicato come l’assoluto”, integrerebbe Renato Bruscaglia, il direttore dell’Accademia d’Arte di Urbino che sul finire degli anni Sessanta vide tra i frequentatori l’artista lodigiano.“Nel segno c’è la filosofia”, ricordava Leonardo Sciascia che nei fogli stampati cercava e indagava oltre che con la vista con l’intelligenza e con il tatto, occasione quant’altre mai gradevole e ricca di fascino.POLETTI La sera prima della partenza
L osservazione di un’attività lunga mezzo secolo, durante il quale Poletti ha realizzato migliaia di lastre, centinaia tra libri d’arte e cartelle, incoraggia ipotesi interpretative. Col il rischio di perdersi. Le sue incisioni sono come pagine di riflessioni annotate con una grafia personale; sono “traduzioni” arabescate in punta di bulino o di raschietto o di mordente, il prezioso filo di Arianna che permette di addentrarsi nei meandri di un’opera rivestita di poesia e di realismo e che rivela una personalità dagli eterogenei interessi. A fine lettura, la figura artistica di Poletti si allontana dalla circoscritta visione che lo ritrae dentro una chiusa provincia. La cifra del segreto e della introversione si dipanano di fronte alle illustrazioni di vita che sembrano respingere il fertile humus delle riflessioni prodotte dall’aneddoto, dando ampiezza a una attenzione che arriva a investire il lavoro, la terra e l’ambiente, i luoghi, la memoria.
Da esperto qual è, Tino Gipponi ha colto nel procedimento l’elemento tecnicamente decisivo del linguaggio grafico di Poletti. Secondo il critico è quello “che gli inglesi chiamano stipple e che discende dall’incisione puntinata o a granito inventata dal fiorentino Francesco Bartolazzi”. “Più che nel tratteggio incrociato – osserva Gipponi – l’ideazione e costruzione del soggetto passa attraverso una specie di retino puntinato, con i valori differenziati di segni per dare distinzione ai diversi materiali e per creare la sensibilità atmosferica fra gli oggetti rappresentati.”
Con i “costruiti segni-puntini” ha dimostrato e dimostra che la sua grafica è lontana per originalità e autenticità da tanta produzione secondaria diffusa.

 

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