XXVI Salone internazionale del Libro di Torino


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Fiere e Festival non salvano il libro dalla crisi

di Aldo Caserini

 XXVI Salone internazionale del Libro, “tradizionale appuntamento per la gioia dei lettori e dei bibliofili” (leggiamo nell’annuncio di una Università on line di Torino). Per gli appassionati di numeri  una rapidissima sintesi: 1.170 espositori. 4 padiglioni al Lingotto. 5 giornate di eventi, 1.400 incontri organizzati, 2.000 ospiti, 26 spazi e sale riservate a incontri e dibattiti, 34 nuovi espositori, 30 espositori rispetto la precedente edizione , 8 regioni presenti (non la Lombardia), tutti gli eventi in diretta su Twitter. Una fiumana di dati che hanno trovato enfasi nelle rappresentazioni della stampa quotidiana, da frastornare e stordire anche il più navigato cultore di paradossi. L’effetto allucinatorio aiuta quasi certamente a spiegare – in piena crisi della lettura e della qualità della produzione libraria -, il 20% in più di visitatori del Lingotto. Che resta, per una manifestazione essenzialmente d’immagine e di mercato, in cui contava il business e il marketing e probabilmente un po’ meno la cultura e la letteratura, un bel successo di cui vantarsi.
Fuori dalla retorica ufficiale – dalle prolusioni, dalla festa inaugurale alla reggia di Venaria con tanto di cesti di limoni in centro a ogni tavola, dalle arditezze di uno Sgarbi che paragona il San Giuseppe della celebre “Fuga in Egitto” del Caravaggio a Berlusconi, eccetera -, cosa c’era dietro alla folla  in fila agli ingressi e accalcata alle uscite?  Il semplice classico “io c’ero” con cui molti ormai frequentano gli appuntamenti di mostre, concerti, incontri con lo scrittore?  O l’immagine più penitenziale del lettore alla ricerca del libro da scoprire per istruirsi, divertirsi, evadere,  parlare, diffondere, eccetera?
Dietro alle tante possibili risposte c’è il rischio resti velata la crisi, le sue radici più o meno profonde, le prospettive. Sappiamo tutti che in Italia si legge troppo poco, che sono meno della metà gli italiani che leggono almeno un libro all’anno (fuori dai propri doveri di studio). E altresì sappiamo che la quota scende nelle regioni meridionali, ma anche se appena si esce dalle grandi città capoluogo e ci si sposta nei piccoli centri di provincia.
“Dove osano le idee”  era il titolo dato al Salone di Torino. Annunciava una sfida. Non c’è stata. Neppure come volontà di affrontare le nuove tecnologie. Conferenze, dialoghi, tavole rotonde, reading, video e mostre sono alcune delle forme attraverso le quali il racconto suscitato da libri, autori, editori, pubblicitari, agenti e personaggi marginali, si è svolto.  Ma la lettura intesa come cibo, che orienta nei sotterranei della mente, emancipa col desiderio di conoscenza, ha come complemento oggetto la persona, il culto del libro vivo che ci modifica e arricchisce ha dato l’impressione d’essere rimasta in disparte. O non messa in luce come sicuramente meritava e il quadro di emergenza suggeriva.
Da un triennio in Italia si legge di meno. Diciamolo pure senza rimorsi, senza sensi di colpa: non sono tanti i libri che meritano di essere letti e quelli degni di essere letti fino in fondo. Il disamoramento verso il libro e la lettura non è però solo da attribuire al lettore, alle sue mutazioni genetiche. E’ anche, se non soprattutto, colpa dei lettori editoriali,  che certo hanno obblighi professionali e scelgono solo i testi che piacciono agli editori, da imporre al pubblico come semplici beni.
Quel che non è uscito dal Salone è l’analisi strutturale e culturale delle cause per cui in Italia si legge sempre di meno. Non quelle economiche. Quelle le hanno fornite le slide dell’ l’AIE.
Già in zona d’ombra tra 2010 e 2012 con la perdita di quasi 800 mila lettori, il libro ha subito tra il primo trimestre 2012 e il primo trimestre 2013 un ulteriore arretramento del fatturato totale, sceso da  362 milioni di euro nei canali trade  a 346 milioni. Dentro a questo dato è cresciuta di un paio di punti percentuali la quota di mercato  delle librerie di catena, mentre in chiara sofferenza sono risultate le librerie indipendenti, la cui quota è scesa ulteriormente dal 37,1% del 2012 al 35,6%. Già quest’ultimo dato rivela il quadro di emergenza culturale in cui versano la lettura e il libro in Italia.
Il Salone del Libro di Torino, col suo delirio di onnipotenza competitiva e il suo suggesso organizzativo, obbliga a scegliere tra i verbi quello meno adatto o tra le sintesi quella meno adeguata. Come quella del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega all’editoria, Peluffo, secondo il quale in Italia “manca al cittadino normale la percezione che leggere sia una cosa importante e una cosa significativa”. Quasi un luogo comune. Ma cosa manca a tutti gli altri “attori”, editori e politica compresi?

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